SN - 19 maggio 1991: i ricordi di chi vide nascere la Sampdoria

SN - 19 maggio 1991: i ricordi di chi vide nascere la Sampdoria
© foto di Guido Pallotti
mercoledì 19 maggio 2021, 16:07News Doria
di Guido Pallotti

La guerra era finita nella primavera del 1945, in giro si vedevano cumuli di macerie dove la gente sinistrata causa i bombardamenti rovistava in cerca di qualsiasi cosa fosse recuperabile, con l’inizio del nuovo anno scolastico avrei iniziato la prima classe elementare. Mio padre sarebbe rientrato a casa solo a dicembre e la mamma doveva darsi assai da fare per allevare al meglio delle sue possibilità il sottoscritto e le mie due sorelle. Coabitavamo nella stessa casa, assieme alla famiglia della sorella di mio padre, quando erano nati loro due la strada in cui era ubicata si chiamava Via Umberto I°, ai tempi delle nostre nascite aveva assunto il nome di Via delle Corporazioni e dalla fine della guerra era stata dedicata a Walter Fillak. Erano talmente poche le cose di cui vantarsi che quando imparammo a scrivere, avendo nell’indirizzo di casa la “W“ e la “K”, inesistenti nelle lettere dell’alfabeto italiano, ci sembrava di possedere qualcosa di raro e prezioso.

Io, le mie sorelle, il cugino Marco andavamo a giocare in Piazza Palmetta, dove le massaie lavavano ai trogoli e dove c'erano bambini di tutte le età, fu in quel luogo che per la prima volta calciai una vecchia e spelacchiata palla da tennis e seppi che esisteva la squadra della Sampierdarenese e per campanilismo mi sentii irrimediabilmente attratto da lei, anche se fra gli amici della piazza c'erano parecchi genoani. A cavallo di quell'anno e del successivo si disputarono i campionati Alta Italia e Italia Centro Sud. Fu l’anno successivo che fu istituito il Campionato a girone unico e Genova disponeva di un solo stadio, si giocava allora solo la domenica alle 15, impensabile in tempo di ricostruzione giocare il sabato, e tre squadre: Andrea Doria, Genoa e Sampierdarenese, il Genoa forte dei 9 scudetti fino ad allora conquistati mai si sarebbe fusa con altri club, toccò all’Andrea Doria e alla Sampierdarenese unirsi in un'unica squadra.

Nel caseggiato, cinque piani e dieci appartamenti in Via Fillak 29, oltre a me e mio cugino Marco, i più piccoli, abitavano Egidio con due anni più di noi, Vittorio maggiore di quattro e Gino della sua stessa età. Contardo Stegani, il padre di Gino era custode della palestra della Sampierdarenese sita in Via Gaetano Storace, dove avvennero le due riunioni che sancirono definitivamente l'unione delle due compagini che diedero il magnifico nome alla neonata Sampdoria avvolgendola nei meravigliosi e inimitabili colori blucerchiati. Nelle assemblee protrattasi entrambe nelle prime ore notturne, Gino Stegani e Vittorio Baldizzone erano presenti col compito di vendere ai presenti, bibite e dolciumi, cioè quel poco che c'era in circolazione a quei tempi. Nella mattinata del 12 agosto del 1946, sentii bussare insistentemente alla porta di casa, corsi ad aprire e vidi Gino e Vittorio, stravolti dall’entusiasmo, che mi raccontarono lo straordinario evento, mostrandomi un foglio da disegno, interamente occupato dai colori: blubiancorossonerobiancoblu, che mi sembrò si staccassero dalla carta per avvolgere il mio cuore, dal quale, benché siano passati 75 anni, non si sono ancora staccati.

La mia mente rincorre a ritroso le emozioni da paragonare a quella inimmaginabile provata la domenica del 19 maggio 1991, quando la mia Sampdoria, squadra neonata della quale, all'età di sette anni mi ero innamorato perdutamente, si apprestava a disputare, nello stadio Luigi Ferraris, da poco rifatto in occasione dei mondiali di calcio “Italia 90”, la partita contro il Lecce nell'ultima giornata di campionato, vincendo la quale si sarebbe aggiudicata lo scudetto… un’utopia che fino a quel giorno sarebbe sembrata follia il solo pensarla realizzabile. Senza mischiare il sacro al profano, anche se nel mio sviscerato amore per l’U.C. Sampdoria non ci vedo nulla di empio, una grande emozione avevo provato il giorno della mia prima comunione e quattordici anni dopo, la domenica del mio matrimonio, che dura da 57 anni, tuttavia erano stati avvenimenti che facevano parte della normale routine della vita, mentre quello che mi apprestavo a vivere era l'avverarsi di un qualcosa da sempre considerato impossibile. Recito un “mea culpa”: nel periodo più buio della Samp, i cinque anni di serie B dal 1977 al 1982 durante i quali due squadre di seconda fascia disputavano gare eccezionali nel massimo campionato, ebbi a dire: «Se la Samp mi desse, anche se per pochi campionati, le soddisfazioni che il Perugia e il Vicenza stanno dando ai propri tifosi, poi mi accontenterei di veleggiare tra serie A e B, come da sempre è stato». Invece stavo per vedere realizzato l'impossibile.

Quella serena domenica di maggio mi ero svegliato con la testa già alla partitissima e il pensiero molesto della volta in cui nella stagione 1985-86, la Roma, squadra partita non tra i favori del pronostico, era riuscita ad accarezzare lo scudetto fino alla penultima giornata, quando, il 20 aprile 1986, all'Olimpico fu ospite un Lecce ultimo e già retrocesso da un mese, che però vinse per 2 a 3, strappando ai giallorossi dal petto, uno scudetto non ancora cucito sulle maglie. Che i salentini volessero ripetere la folle impresa? Con quel pensiero andai come di consueto ad assistere alla messa, nella mia parrocchia di San Giacomo apostolo a Cornigliano, ben guardandomi dal chiedere al buon Dio favori personali, come mi ero ripromesso da quando, con spontaneità, avevo ripreso ad assistere alla sacra funzione domenicale. Esplicato il mio doveroso piacere, mi recai al bar Capurro, già sede di un Sampdoria Club del quale ero stato uno dei fondatori, per scaricare la tensione assieme agli amici doriani di sempre, il tempo di un aperitivo e tornai a casa per pranzare e prepararmi al grande avvenimento. Giunto in piazza Mario Conti vidi un banchetto, gestito da un napoletano che vendeva gadget pronti per esaltare la Sampdoria scudettata e con un poco di timor panico per l’ardire d’anticipare l’evento acquistai una maglietta bianca con su disegnato un grande scudetto tricolore e sotto, in azzurro, Sampdoria 1990 – 91 e la scritta “I campioni siamo noi”, un rapido pasto e indossando la tuta ufficiale dell’Asics con lo sponsor ERG, che copriva la maglietta testé comprata, mi recai al consueto appuntamento con l'amico Gino, assieme al quale, già seduto in macchina, sul sedile posteriore, c'era suo figlio, il più piccolo di tre, Andrea, che teneva fuori dal finestrino una bandiera blucerchiata.

Allo stadio, prima fila centrale della parte superiore della gradinata Sud, c'erano le abituali amiche e gli amici che ci aspettavano e che ci avevano tenuto il consueto posto, inutile dire che quel pomeriggio sarebbe stato impossibile assistere all'incontro stando seduti. Entrarono le squadre e fu il grande Toninho Cerezo già al 2° minuto a dare un colpo di scopa ai fantasmi che mi brulicavano in testa, fu poi la volta del calciatore per il quale avevo una particolare predilezione, Moreno Mannini, il quale al 13' con lo stesso piede destro col quale, in quel di San Siro, aveva fatto il passaggio a Vialli propiziando il secondo gol, con una bordata alla destra dell'incolpevole portiere leccese Zunico, aveva siglato il 2 – 0; infine Vialli al 30' ci diede la certezza che il meritato scudetto era roba nostra. A quel punto, dopo gli abbracci con le amiche e amici di sempre e con qualsiasi persona che sprizzava gioia blucerchiata, mi tolsi la casacca della tuta, mettendo in bella mostra la maglietta con lo scudetto e la scritta “I campioni siamo noi”, che avevo tenuta ben coperta. Malgrado il Presidentissimo si fosse raccomandato di evitare qualsiasi invasione a fine partita, per dar modo a tutti i tifosi di godere del tripudio, i soliti, carenti di furbizia, lo fecero al punto che Paolo Mantovani ebbe a dire “sono gli animali che brucano l’erba”.

A seguito di quel bailamme, Gino, Andrea ed io lasciammo lo stadio e fu mentre attraversavamo Piazza Vittorio Veneto, fulcro della tifoseria sampierdarenese della Sampdoria, qualcuno rubò dalle mani del giovane Andrea la sua amata bandiera. Non furono certo questi due episodi a rovinarci l'irripetibile festa, però il fatto che li ricordi significa che anche se minimo un po’ di peso l'hanno avuto. A casa mi godetti lo spettacolo della festa sampdoriana, ricca di complimenti per il Presidentissimo e l'intera squadra, Toquinho, il grande cantante, connazionale di Cerezo, su preghiera del quale era venuto a Genova per festeggiare il grande evento, le interviste a Villaggio e Lombardo con la parrucca, poi il mantenimento della promessa fatta da Ivano Bonetti, Cerezo e Vialli che in caso di vittoria dello scudetto si sarebbero tinti i capelli di biondo e così apparvero nell’incontro della domenica successiva a Roma, finito 3 – 3 col quale i laziali ci omaggiarono come nei campioni d’Italia.

Ho appena rivisto più di un'ora di trasmissione riguardante quell’impensabile successo, parecchie cose mi hanno emozionato, mi sono però scese le lacrime vedendo la sagace verve di un sessantenne Vujadin Boskov, che solo 17 anni dopo sarebbe morto per una malattia che aveva cancellato dalla sua mente un'intera enciclopedia di ricordi e di nozioni calcistiche.