1946 - Le partitelle con i tacchetti a cinque lire
È appena finita la partita Cagliari 2 Samp 0 e sono triste. A pensare che dal 1946 ad oggi per quanto riguarda il Doria, sia nel bene sia nel male ho visto succedere di tutto e di più. Decido perciò di distogliere l’attenzione dall’ultima sconfitta e mi rituffo nel passato. Mi succede spesso, quando scrivo degli inizi della Sampdoria, che mi sovvengono dei flash,ricordi nascosti negli anfratti della memoria e ne approfitto per ringraziare, Marco e Franco di Belin che Calcio, nonché lo squisito Diego Anelli, che mi aiutano a tenere sveglia e allenata la mente.
Chi mi segue sa che abitavo nello stesso caseggiato, in Via W. Fillak 29 con Gino Stegani, figlio di Contardo, custode della palestra della Sampierdarenese, luogo che aveva visto nascere la Sampdoria. Nello stesso edificio abitavano Egidio Boccaccio del ’37, Marco Riccomagno, mio cugino ed io, coetanei entrambi del ’39, nostro dirimpettaio Vittorio Baldizzone del ’35 così come Gino Stegani; abbastanza per fare una squadretta e attraversata la strada andare in Piazza Palmetta dove c'erano abbastanza bambini da organizzare qualche partitella. Succedeva che, coinvolgendo Elvio Repetto anche lui del ’39 e Vittorio (Tito) Mazzocchi, mettessimo insieme una squadra a 7: Gino portiere, Elvio, Vittorio, Marco, difensori, io, Tito ed Egidio attaccanti e tante erano le sfide con quelli del Campasso sul loro campetto, ricavato sulle macerie di un palazzo crollato proprio di fronte ai macelli, oppure contro gli amici dei palazzi dei ferrovieri, tristemente diventati celebri, i palazzi, non i ragazzi, per la tragedia del Ponte Morandi.
Non era difficile organizzare quelle partitelle perché la maggior parte di noi andava a scuola alle elementari Antonio Cantore ed era facile, finito il turno pomeridiano mentre giocavamo nel giardino che comprendeva l’istituto, organizzare qualche sfida. Le nostre divise erano quanto di più strambo si possa immaginare e immagino che Paolo Villaggio nelle sue parodie si sia immedesimato in quei ricordi. Ricordo un ragazzo che aveva piantato i tacchetti, si compravano a 5 lire ciascuno, sotto gli zoccoli di legno che si legavano ai piedi con uno spago; io ero fra i meno peggio, scarpe da pallone comprate usate da un ragazzo più grande al quale non andavano più bene, mutandine confezionate da mamma, abile con la macchina da cucire, così come una maglietta bianca, indubbiamente non adatta all'abbigliamento quotidiano, sul petto della quale aveva cucito le strisce orizzontali rosse e nere.
Due cose che non ci mancavano erano la creatività e la manualità: eravamo in grado di piantare da soli i tacchetti alle scarpe, in tutte le case c'erano sia il treppiede da calzolaio e il martello. Un autentico lavoro consisteva nel gonfiare il pallone e non era cosa da poco: infilare la camera d'aria nel copertone sferico di cuoio (in zeneize scron), inserire la valvola della pompetta nel beccaletto che fuori usciva dall'apertura, tenere l'attrezzo fra le ginocchia e poi spingere su e giù lo stantuffo fino a che il pallone aveva la giusta consistenza. Svitare la pompa lasciando la valvola inserita che ne impedisse lo sgonfiamento, piegare il becchelletto, legarlo strettamente con uno spago sottile, togliere la valvola invitandoci la pompetta, spingere la parte terminale della camera d'aria all'interno del copertone, ben sotto la strisciolina di pelle di protezione. Quindi con l'apposito ago far passare la striscia di cuoio (o strilen), attraverso a i fori, stringere bene la cucitura di modo che il football avesse una perfetta forma sferica e pregare sperando che il pallone non ti colpisse il viso o la testa con la parte stringata, se poi fosse piovuto e la palla si fosse intrisa di fango sarebbe stato ancor più terribile.
I palloni per lo più erano regali di Natale o per la prima Comunione e logicamente chi lo possedeva era il re della piazza. “Tu col mio pallone non giochi” – se col soggetto c'era stato qualche bisticcio: “Se non gioca lui non gioco neppure io” – diceva qualche amico del possibile escluso, quindi se si voleva fare la partita, bisognava tornare buoni e disponibili. Due fra i più grandi formavano le squadre e quando c’era qualcuno che interessava ad entrambi se lo disputavano a bim bum bam, pari o dispari. Una porta era disegnata sul muro della corderia, l'altra segnata da due sassi, se il tiro verso la porta del muro finiva alto, quindi sul tetto della fabbrica di cordami, ci pensava Vittorio “o schitta” che con balzi agili si arrampicava fin su a recuperare il pallone. A distanza di più di quarant'anni lui ed io ci siamo trovati in tribuna a Borzoli, suo figlio giocava negli allievi della Praese, il mio nella squadra del Lagaccio, fu come se ci fossimo visti il giorno prima e vedendo i nostri ragazzi con le belle tute da gioco e le scarpe flessibili con i 13 tacchetti, ridemmo al ricordo di come ci vestivamo noi per giocare … alla Fantozzi.